«Non c’è niente di bello in una fabbrica luminosa. Io amo le fabbriche buie. Le condutture. Amo i fluidi e il fumo. Amo le cose create dall’uomo. Mi piace vedere la gente lavorare duramente e mi piace la melma, gli scarti che l’uomo produce». Tentare di parafrasare David Lynch, da “Six Figures Getting Sick” a “Inland Empire”, è come mettersi a rastrellare foglie secche durante un uragano.
A parlare per lui, abituato a rispondere a domande di critici e giornalisti con costruzioni sintattiche al limite della dabbenaggine, per un interlocutore sprovveduto, sono i suoi film, gli album, i quadri, le sue fotografie. Il Mast di Bologna, realtà sospesa tra il futurismo e il post-modernismo, ha accolto stamattina, in anteprima nazionale, “The Factory Photographs”, una raccolta di 111 scatti del cineasta di Missoula che viaggiano tra gli anni 80 e il 2000 immortalando fabbriche, comignoli, botole e vetri frantumati, che si tramutano in scenografie spettrali.
La mostra, a ingresso gratuito fino al prossimo 31 dicembre, è stata curata dalla tedesca Petra Giloy-Hirtz. Dagli Stati Uniti alla Polonia, passando per l’Inghilterra e la Germania, la fuliggine, le esalazioni e i vapori avvolgono luoghi che solo all’apparenza figurano come mastodontici fantasmi dell’era industriale, mentre in realtà pullulano di vita e materia come il “quieto” giardino dell’ouverture di “Velluto blu”.
Le immagini, rigorosamente in bianco e nero, si fanno reincarnazione di un’idea, «il motore di tutto» secondo Lynch. La sua inconfondibile cifra stilistica pervade ogni singolo dettaglio, dando vita a un’atmosfera dalle sfumature arcane e surreali e a una sequenza onirica che evoca la disorientante visionarietà delle sue pellicole, “Eraserhead” su tutte.
Questi piccoli capolavori scattati con macchine analogiche non racchiudono né l’obiettività propria della fotografia realistica, né perseguono in modo artefatto il fascino per il morboso e il mistero. Semplicemente, il mistero ne è una componente ontologica, naturale. Si tratta di documenti totalizzanti della storia contemporanea. Per lo stesso artista, infatti, la fabbrica è «un mondo completo», seppur all’apparenza inospitale. «Mi sono sentito come se fossi in paradiso».
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“The Factory Photographs” al Mast”